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mercoledì 8 febbraio 2012

Ecovillaggio



Che senso ha oggi vivere in un ecovillaggio? E soprattutto come si fa a farne parte?

In una società profondamente individualistica come quella attuale, l’idea di vivere insieme ad altre persone condividendo professionalità, esperienze, affetti, risorse economiche e intellettuali può destare meraviglia. Tuttavia sono sempre più numerose le persone di età e percorsi diversi che non si rassegnano a vivere in anonimi condomini, trincerati nel proprio appartamentino dotato di tutti i confort, ma sempre più spesso privo dell’optional più prezioso: il calore umano, la solidarietà dei vicini, l’umanità di chi ci vive intorno.

Se ci guardiamo con onestà dentro, la principale mancanza che viviamo in questi anni è proprio il senso di appartenenza. Si tratta di uno sradicamento profondo che si tinge di sfumature diverse, ma che tocca tutti, senza distinzione di ceto sociale, età e sesso, accentuato ancor più negli ultimi anni dall’impetuoso processo di globalizzazione economica e culturale in atto. La sua origine ha sicuramente a che fare con due processi, tipici di tutte le società cosiddette avanzate: l’affermazione della famiglia mononucleare, che ha impoverito drasticamente l’universo affettivo di adulti e bambini, e l’economia mercantile, che ha spezzato definitivamente il legame tra chi produce un bene e chi lo utilizza. A rendere ancora più arido il paesaggio esistenziale dell’uomo contemporaneo è anche il progressivo annientamento dell’ambiente naturale, da sempre luogo di connessione tra l’essere umano e le sue radici più ancestrali.

L’ecovillaggio e il cohousing ecologico rappresentano il tentativo di ricostruire una nuova socialità in grado di superare il disorientamento e la povertà affettiva della globalizzazione, creando nuovi vincoli basati su un progetto comune di «umanizzazione» di un pianeta sempre più privo di umanità e ormai sull’orlo del collasso. Abituati a vivere le nostre vite conoscendo a mala pena il vicino di pianerottolo, stupisce che sia possibile condividere fuori della cerchia ristretta dei legami parentali l’educazione dei figli, la preparazione dei pasti, le pulizie, il lavoro, in alcuni casi persino l’economia. Eppure si tratta di scelte che oltre a migliorare la qualità della vita, perché liberano il tempo e aumentano la socialità, portano a una riduzione sensibile dei costi economici e ambientali.

Sono scelte che, come direbbe Maurizio Pallante, riducono il prodotto interno lordo, ma aumentano la felicità netta. Provate a immaginare quanti televisori, lavatrici, lavastoviglie, scaldabagni, automobili ci sono in un normale condominio.
Se le stesse persone decidessero semplicemente di condividerne l’uso, invece di dieci lavatrici ne potrebbe bastare una, magari più capiente; e così per la caldaia, il televisore o la lavastoviglie; e forse invece di dieci auto, che viaggiano per gran parte del tempo con un unico passeggero, ne basterebbero tre o quattro.
Sembra impossibile. Eppure questo è quanto avviene in numerose esperienze di ecovillaggio in Italia e nel mondo.

Un ecovillaggio è comunque qualcosa di più della semplice condivisione di uno spazio e di qualche elettrodomestico: si tratta di condividere con un gruppo di persone una visione e sperimentare concretamente nel quotidiano uno stile di vita in armonia con la natura basato sui valori di solidarietà, partecipazione, ecosostenibilità e decrescita.
Ogni ecovillaggio ha la sua storia, la sua filosofia e organizzazione, ma due sono gli elementi fondamentali che lo caratterizzano: l’intenzionalità e l’ecosostenibilità, dove per comunità intenzionale si intende «un gruppo di persone che hanno scelto di lavorare insieme con l’obiettivo di un ideale o una visione comune».
Per quanto riguarda la sostenibilità, la Rete italiana villaggi ecologici (Rive) promuove una ecosostenibilità a 360 gradi. Così come recita la Carta degli intenti, gli ecovillaggi «si ispirano a criteri di sostenibilità ecologica, spirituale, socioculturale ed economica, intendendo per sostenibilità l’attitudine di un gruppo umano a soddisfare i propri bisogni senza ridurre, ma anzi migliorando, le prospettive delle generazioni future».

Ecovillaggio, cantiere sociale
Soddisfare i propri bisogni come gruppo non significa isolarsi dal mondo per creare un’isola felice di utopia. Chi interpreta l’esperienza degli ecovillaggi come una sorta di fuga dalla società o come scelta individualistica si sbaglia. Lo slogan: «Un mondo migliore è possibile: noi lo stiamo costruendo» coniato dalla Rive in occasione del Social forum europeo del 2003, esprime molto bene il contributo che l’esperienza degli ecovillaggi può offrire al processo di trasformazione della società. E l’interesse crescente per tale movimento è una prova concreta di questo desiderio di cambiamento. Giovani e meno giovani, singoli e coppie, lavoratori e disoccupati, baby pensionati, ma anche professionisti e imprenditori: l’idea sembra coinvolgere in maniera trasversale fasce generazionali, strati sociali ed esperienze d’impegno politico e sociale più diverse. Questo bisogno di un «mondo migliore», oggi è sperimentato concretamente negli oltre tremila ecovillaggi diffusi oramai in tutto il pianeta senza distinzione di continenti e paesi.

L’area più ricca di comunità ed ecovillaggi è il continente americano, dove si contano almeno 2000 comunità, il 90 per cento delle quali situate negli Stati Uniti, con un numero di membri stimano intorno alle 100.000 persone. In Gran Bretagna e Irlanda sono segnalate circa 250 comunità con 5000 membri. In Germania sono oltre cento, in Francia 33, nei Paesi Bassi 13, nei paesi scandinavi circa 28. In Spagna e Portogallo 23 in tutto.

Il panorama italiano
Dal punto di vista numerico, il panorama italiano è abbastanza povero: si contano non più di una ventina di realtà comunitarie, cui vanno aggiunti cinque-sei progetti, cioè esperienze in via di formazione. Pur presentando esperienze di punta per dimensione (vedi Nomadelfia e Damanhur, la prima con 300 e la seconda con oltre 600 membri residenti) e storia (La Comune di Bagnaia è stata fondata nel ’79), in Italia non è molto facile inserirsi in un ecovillaggio. Le poche realtà esistenti, almeno quelle già consolidate, sono sovrapopolate e ancora maggiori sono le difficoltà per chi intende realizzare un ecovillaggio ex-novo. Il prezzo della terra ha oramai raggiunto valori insostenibili, mentre la precarietà diffusa e la difficoltà di trovare lavoro non facilità né l’accumulazione delle risorse necessarie, né tanto meno lo spostamento da un città all’altra per avvicinarsi a eventuali progetti in via di realizzazione.

Oggi, rispetto a vent’anni fa, il costo della terra è enormemente lievitato, rendendo in molti casi proibitivo l’acquisto di un immobile, in città o in campagna. Nonostante questo quadro poco rassicurante, non mancano comunque esperienze incoraggianti come l’ecovillaggio di Coricelli, in Toscana; Granara, in provincia di Parma e alcuni interessanti progetti che sono in fase di realizzazione in Sardegna. Quel che viene chiesto alla nuova generazione di ecovillaggisti è un grande sforzo di creatività per inventarsi nuove soluzioni. Risulta evidente che oggi il modello «Comune di Bagnaia» o «Ecovillaggi Torri Superiore», è una strada difficilmente percorribile, si tratta di trovare nuove forme di aggregazione comunitaria. Una strada può essere quella del cohousing: una sorta di condomino solidale, sperimentato con successo dall’associazione Mondo di Comunità e famiglia; l’altra, tutta da inventare potrebbe essere una sorta di «ecovillaggio diffuso», dove uno o più nuclei, pur conservando la loro individualità si mettono in connessione con famiglie, singoli e realtà associative del luogo per realizzare una rete solidale territoriale, in grado di fungere da riferimento per tutti coloro che vogliono concorre alla realizzazione di un «mondo migliore » a partire dal loro quotidiano.

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